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Nei panni di mia moglie

"Nei panni di mia moglie" pubblicato da Editrice Nuovi Autori

Imago mortis - un'esca per la regina nera

"IMMAGO MORTIS- un'esca per la regina nera" pubblicato da Il Filo


Cronaca nera

di Andrea Saviano

Quando mi notificarono l'avviso di garanzia non mi preoccupai più di tanto, dopotutto ero innocente. « Si tratta di un atto dovuto, lei non si preoccupi. È in buone mani, » mi disse l'avvocato.

La mia unica colpa era quella di non avere un alibi credibile. Essendo l'unico sospettato (perché altri che avessero uno straccio di movente non c'erano), l'assenza di testimoni che confermassero le mie dichiarazioni equivalse a una prova a carico.

In poche parole, il Giudice per le Indagini Preliminari sentenziò che l'unica persona che poteva aver commesso l'omicidio per movente e opportunità ero io. In fin dei conti la vittima era la mia ex-moglie, colei che all'atto del divorzio m'aveva privato dei miei beni.

« É evidente che il rancore dell'ex-marito sia stato l'elemento scatenante. Inoltre, egli è l'unico che avesse una motivazione, era l'unico che fosse a conoscenza del fatto che i figli fossero dalla nonna materna, le sue impronte sono state trovate numerose nella casa della vittima e, questione fondamentale, non è in grado di fornire un valido alibi per l'orario presunto dell'omicidio. Ritengo quindi tutti questi elementi indiziari sufficienti a istituire un processo a carico di Ossi Rodolfo. »

Il dibattimento dei tre livelli di giudizio si poté sintetizzare in questo scambio di battute:

« Signor Rodolfo Ossi è lei in grado di fornire un valido alibi per le ore 2:00 della notte del 17 settembre 1974? »

« Sì, ero a casa mia a letto. »

Ovviamente testimoni in grado di confermare la cosa: nessuno.

Ora, dato che era necessario rassicurare l'opinione pubblica che non esisteva un mostro che senza alcun motivo entrava nelle case dei bravi cittadini per massacrarli, gli indizi a mio carico furono sempre ritenuti sufficienti a giustificare una mia condanna per omicidio.

Una sentenza che la stampa giudicò, a caratteri cubitali e in prima pagina, come: “ESEMPLARE”.

Ovviamente i vari ricorsi andarono disattesi perché la questione ruotava intorno al fatto che io dovevo dimostrare di non essere il colpevole e non che il Pubblico Ministero dimostrasse la mia colpevolezza.

Così finii in carcere e, essendo stato condannato per un efferato omicidio, ebbi la fortuna di godere dell'isolamento.

Cominciò in questo modo la conoscenza di un mondo sino allora a me ignoto.

Espiare una pena, al contrario di quanto molti “ben pensanti” ritengono, non è in alcun modo una vacanza a spese dello Stato.

Infatti, la vita di un carcerato è regolamentata in ogni sua più piccola attività ed è questa situazione, più delle sbarre alla finestra, che spiegano il termine “privazione della libertà”. È per questo motivo che nelle strutture detentive i funzionari attribuiscono un particolare valore rieducativo al far adempimento ai detenuti tutte le attività programmate per la giornata.

Ogni infrazione a questa pianificazione è severamente punita. Le sanzioni nono sono quasi mai corporali ma di tipo psicologico e consistono nel rifiuto della richiesta di condono, nella negazione di una riduzione di pena o nel passaggio a un regime detentivo più duro.

Cosicché, per un detenuto la “buona condotta” consiste nell'accettare questa semplice regola.

Se all'inizio lo stato d'isolamento non mi risultò benaccetto, con il tempo compresi che si trattava di un privilegio perché la convivenza in spazi ristretti con persone inclini alla violenza non è una cosa semplice.

Lì, da solo, non dovevo stare in guardia da possibili minacce o ritorsioni, né vivere nel terrore come accadeva a coloro che, innocenti come me, si ritrovavano costretti a condividere la cella con i delinquenti. Paure che neppure il più efficiente tra i penitenziari era in grado di eliminare.

Se fino allora m'ero illuso di conoscere i vizi e virtù dell'umanità in ogni loro aspetto (in fin dei conti avevo viaggiato molto e interagito con persone di vari strati sociali), una volta finito in galera mi convinsi del contrario. Di fatto, pur isolato nella mia cella, trascorrevo parecchio tempo in compagnia anche dei criminali più incalliti: durante l'ora d'aria, negli uffici amministrativi, nelle docce comuni, in mensa. Inoltre, durante la notte, era possibile ascoltare i discorsi che costoro facevano da una cella all'altra. Da tali dialoghi trassi una nuova comprensione della psiche degli esseri umani perché, per quanto l'idea mi desse fastidio, costoro appartenevano a buon diritto alla stessa umanità a cui appartenevo anch'io.

Così, sin dal mio primo giorno di detenzione cominciai a raccogliere le confessioni dei miei due vicini: un assassino seriale e un feroce omicida.

Il primo ogni notte rivelava i particolari agghiaccianti di come sceglieva le proprie vittime, di come le pedinasse per conoscerne abitudini e orari, di come riuscisse a catturale, imprigionarle, seviziarle e, infine, ucciderle in maniera atroce e tra mille sofferenze. Le sue vittime erano tutte giovani donne e si divertiva a raccontare come bastasse paventare a costoro la sola idea di essere risparmiate per ottenerne comportamenti lascivi e dissoluti.

Il secondo gli faceva eco raccontando la sequela di efferate rapine in villa corredate dalla puntuale descrizione di come, una volta entrato e a colpi di scure, uccidesse tutti gli occupanti, manifestando un particolare piacere quando l'eccidio coinvolgeva donne in avanzato stato di gravidanza o bambini in tenera età che strillavano in preda al terrore.

Non si trattava di persone che semplicemente avevano compiuto dei reati, ma di individui che per il male provavano una particolare inclinazione, un piacere fatto di un amore che rasentava l'adorazione.

CONTINUA